SUNLIGHT


Luce che filtra attraverso una griglia e un elmetto-paracadute – queste immagini ambivalenti prevalgono nel progetto di Oleg Kulik, attivista, performer, scultore e artista moscovita.

Le tre installazioni scultoree di “Grid” riproducono le sbarre alle finestre tipiche dell’era sovietica in cui il motivo prevalente era un semicerchio che emana raggi. Questo stesso “sole” veniva spesso raffigurato nei tatuaggi criminali e simboleggiava il “Nord” (dove veniva scontata la condanna), la resilienza e l’aggressività. Qui Kulik forza lo stucco corporeo attraverso reticoli saldati da barre di metallo. Due pugni stringono le sbarre di una recinzione. La schiena di un uomo preme contro la griglia metallica e altri due pugni afferrano le sbarre più in alto - di cosa si tratta? Amore? Violenza? Sofferenza? La terza griglia appare ancor più simbolica: la mano di un uomo con una colomba stretta nel palmo si allunga verso un’apertura in ferro (come quelle degli sportelli per pagamenti in contanti e per il cambio di valute). Allo stesso tempo questo “uccello della pace” caratterizzato da una chiara e riconoscibile fisionomia Putinesca, becca un dito umano. La griglia cui Rosalind Krauss fa riferimento quale emblema del modernismo ha permesso agli artisti del Ventesimo secolo di raggiungere una certa autonomia nella loro arte, a differenza di Leonardo o Dürer, i quali sovrapponevano un “reticolo prospettico sul mondo rappresentato come l’armatura della sua organizzazione ”. Sembra che Kulik performer abbia confinato se stesso dietro le sbarre, presentando agli spettatori il proprio corpo nudo e sofferente alla maniera dei martiri Cattolici, gettati tra le fiamme su reticoli simili o trascinati per la città per essere ridicolizzati dai plebei.

L’installazione dei “Parachutists” sembra voler comunicare un concetto di “ordine” simile. L’immagine di una formazione militare rappresentata da file di elmetti è rotta internamente da figure di “piccole persone” che pendono da cupole di ferro. Sono cento le sculture antropomorfe realizzate non da artisti professionisti, ma da coloro che presero parte alle azioni artistiche di Oleg Kulik, spettatori da lui invitati a contribuire attivamente al suo progetto espositivo a Mosca. Lo “scultore” ha assemblato il telaio a cinque arti (teste-braccia-gambe) a partire dall’argilla polimerica in un periodo di tempo molto breve e rigorosamente definito. Kulik ha predisposto l’azione come una terapia: gli spettatori dovevano trasmettere tutta la loro energia attraverso le proprie dita, esprimendo il dolore per l’insulto e per il tradimento. Così facendo, Kulik sperava di superare i traumi personali e trovare un paracadute salvavita nell’organizzazione di atti collettivi.

In termini di plasticità “Parachutists” era un esperimento nel genere della “fast sculpture”. L’atto di plasmare spontaneo e in alcuni casi persino “automatico” ha rivelato elementi di dolore personale, e ha portato alla luce le limitazioni del genere. “Parachutists” è divenuto un autentico ossimoro: gli elmetti di metallo pesante fusi a partire da un singolo modello si sono rivelati emisferi benefici per figure di forme, volumi e plasticità differenti. In origine questa installazione fu inclusa nella mostra di sculture inedite di Kulik intitolata “Our Mother”, mentre le file di elmetti erano presenti nel progetto curatoriale dell’artista sulla pittura Realista Socialista nordcoreana. Qui sorge spontanea una domanda: cosa sta per accadere? La patria salva i propri cittadini con gli elmetti-paracadute o, al contrario, trasforma gli uomini in “corpi nudi” o “carne da cannone”, conducendoli verso morte certa? Queste persone sormontate da cupole-aureole sono ancora vive, o sono piuttosto cadaveri che discendono su di noi? Non molto tempo fa, Rebecca Horn pose un dilemma analogo sul tema di salvezza-morte in una piazza nella città di Napoli, dove dispose a terra alcuni teschi in metallo illuminati dall’alto per mezzo di aureole luminose. Allo stesso modo, le griglie e i paracaduti di Oleg Kulik parlano di questioni personali e sociali, della rapida plasticità della scultura e della durezza della saldatura, dell’impegno verso la società e del tradimento di relazioni interpersonali, di arte e rituali, di dipendenza e di libertà.

Entrambi i progetti sono preceduti cronologicamente e concettualmente dall’opera “Eclipse”. Essa è l’immagine di un uomo diviso, impigliato fra ideologia e fisiologia.

L’uomo avanza, ma guarda indietro. La società nel suo complesso è paralizzata in questa posa. L’immagine si sviluppa in due direzioni: nella struttura di “Grids” o nei corpi di “Parachutists”.







Light through a grid and a helmet-parachute – these ambivalent images predominate in the project by Oleg Kulik, the Moscow actionist, performer, sculptor and artist.

The three sculptural installations in ‘Grid’ reproduce Soviet-era window bars in which the prevailing motif was a semicircle with radiating rays. The same ‘sun’ often figured in criminal tattoos and symbolised the ‘North’ (where the sentence was served), resilience and aggression. Here Kulik forces a corporeal putty through lattices welded from metal bars. Two fists grip the bars of an enclosure. A man’s back presses against the metal grid and two more fists grab the bars above – what is this? Love Violence? Pain? The third grid is even more symbolic: a man’s hand with a dove clutched in the palm stretches through an iron aperture (as seen in cash payment booths and currency exchanges). At the same time this ‘bird of peace’ with a recognisably Putin-esque physiognomy pecks the human finger. The grid referred to by Rosalind Krauss as an emblem of modernism allowed 20th-century artists to achieve a certain autonomy in their art, as distinct from Leonardo or Dürer, who superimposed a ‘perspective lattice on the depicted world as the armature of its organisation’. It seems that Kulik the performer has confined himself behind bars, presenting his naked and suffering body to onlookers in the manner of Catholic martyrs cast in the flames on such grids, or dragged through town for ridicule by the commoners.

The ‘Parachutists’ installation appears to convey a similar concept of ‘order’. The image of a military formation represented by rows of helmets is ruptured from within by figures of ‘little people’ suspended from iron cupolas. One hundred anthropomorphic sculptures were made not by professional artists, but by participants in Oleg Kulik’s art action, spectators that he invited to co-create in his Moscow exhibition project. The ‘sculptor’ assembled the five-membered frame (head–arms–legs) from polymer clay in a very brief and strictly defined time period. Kulik positioned the action as therapeutic: viewers should transmit all the energy through their own fingers, expressing the pain of insult and betrayal. In this way Kulik hoped to overcome personal trauma and find a lifesaving parachute by organising a collective act.



In terms of plasticity ‘Parachutists’ was an experiment in the genre of ‘fast sculpture’. Spontaneous and in some instances even ‘automatic’ moulding revealed personal pain points, and demonstrated the limitations of the genre. ‘Parachutists’ became an original oxymoron: heavy metal helmets cast from a single template turned out to be salutary hemispheres for figures of dive se form, volume and plasticity. This installation was shown initially at the exhibition of Kulik’s new sculptures entitled ‘Our Mother’, while the rows of helmets appeared in the artist’s curatorial project on Socialist Realist painting from North Korea. Here the question arises: what lies ahead? Does the homeland save its citizens with helmets-parachutes or, conversely, does it turn men into ‘naked bodies’ and ‘cannon fodder’, dispatching them to certain death? Are these people under the cupolas-haloes still alive, or corpses descending on us? Rebecca Horn presented a comparable dilemma of salvation-death not long ago on a Naples city square, where she placed metal-cast skulls illuminated from above by haloes.

Similarly Oleg Kulik’s grids and parachutes speak of personal and social issues, the rapid plasticity of sculpture and rigidity of welding, commitment to society and the betrayal of interpersonal relations, art and ritual, freedom and dependence. Both projects are preceded chronologically and conceptually by the work ‘Eclipse’. This is the image of a divided man caught between ideology and physiology. The man goes forward, but looks back. Society as a whole is transfixed in this pose. The image develops in two directions: into the structure of ‘Grids’ or the bodies of ‘Parachutists’.